Fin da bambino ho avuto un piccolo sogno, un sogno che molti altri coetanei della mia età, per decenni, hanno coltivato: completare l’album delle figurine dei calciatori.
Vero, molto spesso era più un desiderio dei nostri padri “malati di calcio” che, per giustificare l’inutile spesa alle mogli inferocite, si nascondevano dietro un “No, ma è per Paolo, me le chiede sempre…”. Nonostante tutto, non mi scorderò mai quando, ogni domenica, tornava mio papà dal giornalaio con quella mazzetta di bustine gialle da scartare come se fossimo un regalo di Natale, dove speravo di trovare un Totti, un Cannavaro o, ancora meglio, la ridente coppia Motta-Santoruvo che serviva a completare quella mesta paginetta, dedicata ad ogni squadra di Serie B, giusto per ricordare che “ah, ci siete anche voi”, che è sempre rimasta semi-incompleta.

Nel corso degli anni ho imparato a conoscere un po’ meglio tutto quello che mi appassionava e ho capito che anche dietro a quelle figurine, semplici immaginine colorate per un bambino qualunque, ci fosse molto, molto altro… Basti pensare alla famosa accoppiata Poggi-Volpi, distribuita solo in pochissime unità che portarono le famiglie italiane non solo al esaurimento nervoso, ma anche a numerose e costose parcelle dai dentisti a causa dell’enorme quantità di gomme da masticare acquistate per trovare quella maledetta figurina. O quella di Luigi Pizzaballa, portiere dell’Atalanta degli anni ’60 sulla cui figurina, letteralmente introvabile, girarono molte leggende, con la classica teoria più accreditata che narrava dell’impossibilità a presenziare al momento delle foto ufficiali per alcuni problemi di salute. Insomma, le figurine hanno segnato indelebilmente molte delle nostre innocue e gentili menti adolescenziali.

I fratelli Panini, ad inizio anni ’60, decisero di aprire questa “moda” o, più romanticamente, di far breccia nel cuore degli italiani. Non era un compito semplice come può sembrare a 60 anni di distanza, però.
In quegli anni, nonostante l’Italia si trovasse nel pieno del “Miracolo Economico”, già le Edizioni Nannina provarono l’esperimento delle figurine dei calciatori, senza però trarne particolari vantaggi. Panini, che probabilmente aveva avuto un sogno premonitore, in barba a tutte le previsioni decise di acquistare un lotto di figurine invendute e di creare il suo primo album, “Grande Raccolta di Figurine CALCIATORI” si intitolava. A primo impatto, la copertina era anche abbastanza “attraente”, una rivisitazione stilizzata del noto colpo di testa di Nils Liedholm con la maglia del Milan su sfondo giallo, era il primo piccolo passo verso il successo, ma oltre a questo serviva la famosa N.1, la prima figurina da stampare che poi sarebbe entrata, di diritto, nella storia.

Nel 1961 il campionato italiano poteva vantare dei fenomeni del calibro di Altafini e Sivori, giusto per fare due nomi, ma come racconterà più in la il vero protagonista “Io poi mi sono fatto spiegare dalla Panini il tutto e mi hanno detto che loro avevano deciso di intraprendere quest’avventura e nel ‘61 io avevo 21 anni, ero capitano dell’Inter e pensavano che fossi il giocatore ideale per rappresentare queste figurine.”. Quel protagonista era il giovanissimo capitano dell’Inter Bruno Bolchi, che ancora giovane si dovrà ritirare per noie muscolari che lo costrinsero ad attaccare gli scarpini al chiodo a soli 30. Ma per Bolchi così, dopo quattro partite in Nazionale maggiore, si aprì un’altra grande avventura, quella da allenatore.

Bolchi era un giocatore imponente, difensore di vecchio stampo che, forte del suo fisico possente e la sua faccia da duro, riuscì a ritagliarsi uno spazio importante nella difesa nerazzurra, ma probabilmente il suo habitat naturale era un altro.

Bolchi nella prima figurina della storia

Nel calcio, soprattutto tra i tifosi e gli appassionati, si susseguono sempre nei discorsi “nostalgici” le classiche pagine storiche della propria squadra del cuore.

Chissà se qualcuno avrà mai raccontato a Cornacchini, l’incaricato numero uno a riportare il Bari ai livelli che merita dopo il doloso fallimento, le imprese che Lauro Toneatto e proprio Bruno Bolchi riuscirono a “firmare” tra gli anni 50 e gli anni 80 qui a Bari. Si, perché Bruno Bolchi, dopo alcune stagioni ad alti livelli sulle panchine di Pistoiese, Atalanta e Cesena, fu chiamato dai Matarrese per cercare l’impresa di riportare nel minor tempo possibile il Bari in Serie B dopo la cocente delusione della retrocessione del 1983, cocente soprattutto perché segnò la fine del sogno del “Bari dei Baresi” che tanto aveva entusiasmato con il rivoluzionario Mister Catuzzi solo un anno prima.

Bari 1983/84 – Ph. Wikipedia

Quello di Bolchi non fu solo il suo primo anno alla regia dei biancorossi, ma fu anche il primo anno di Vincenzo Matarrese alla guida dell’intera società. Bolchi, che di “Genzino” ha sempre conservato un ottimo ricordo, racconta spesso che il patron in svariate occasioni gli ripeteva “Mi deve scusare, io sono appena entrato nel calcio...”, eppure quella coppia “inedita” firmò subito una pagina indelebile nella storia dei galletti.

Cavasin, Lopez, Messina, Guastella, De Trizio, Loseto furono la colonna portante della squadra che incarnava alla perfezione la mentalità del proprio allenatore, quella di “Maciste” come fu soprannominato Bolchi ai tempi dell’Inter per la sua stazza fisica, una squadra vogliosa, determinata, forte ma anche onesta e corretta. Quella squadra riuscì non solo a conquistare la promozione in Serie B con largo anticipo, davanti a Taranto, Casarano, Francavilla, Casertana e Benevento, ma anche ad arrivare in semifinale di Coppa Italia dopo aver battuto la Juventus in una storica doppia sfida che permise al Bari di scrivere il proprio nome nella storia della competizione: mai nessuna squadra di Terza Serie, fino ad allora (e fino al 2016), era riuscita ad arrivare così avanti in Coppa Italia. Quella fu una squadra storica, così come storica fu la foto, che ancora oggi si trova in alcuni circoli della periferia, che ritraeva un Bolchi esultante al Della Vittoria dopo la conquista della Serie B.

Per Bolchi e per molti giocatori fu quella una svolta, non solo perché riuscirono a tornare in Serie B (alcuni di loro non erano mai arrivati nella cadetteria), ma perché si imposero a livello nazionale continuando a stupire anche nella stagione successiva dove, nonostante avversarie di tutto rispetto, con un’altra stagione piena di sacrificio, sudore e gioie, riuscirono a conquistare un’inaspettata e insperata doppia promozione, guidati da un Edi Bivi mai così prolifico in una singola stagione.

Come purtroppo la storia brutalmente spesso racconta, però, la gioia non durò molto. Nonostante alcuni acquisti di spessore, Cowans e Rideout ad esempio, la favola biancorossa si interromperà prepotentemente l’anno dopo, con un penultimo posto che condannerà il Bari nuovamente alla Serie B. “E’ uno dei pochi rimpianti della mia carriera” Disse Bolchi alla redazione de Il Bari nel 2008 “Sono ancora convinto che con un paio di elementi esperti in più, quel Bari si sarebbe salvato“. Quella fu la sua ultima stagione alla guida dei galletti, dopo 102 panchine in campionato ed una serie innumerevole di successi. Il suo lavoro a Bari era terminato e le due parti si lasciarono con un sorriso ed un briciolo di malinconia. 

Si sa però, Maciste con il suo animo buono ha il bisogno irrefrenabile di aiutare chiunque nei momenti più difficili. E dopo aver cercato di risollevare le sorti, riuscendoci il più delle volte, di tante squadre da Nord al Sud, nel 1990 arrivò alla corte di Maciste una chiamata abbastanza inaspettata.

Erano le ultime partite di una Serie B molto equilibrata, ne mancavano solo 6 alla fine, e c’era una squadra che stava stupendo tutti grazie soprattutto al suo giovane allenatore, tale Gustinetti: la Reggina.
Gustinetti, diventato un allenatore ambitissimo in tutto lo stivale, strinse un accordo con l’Empoli per la stagione successiva dato che il suo contratto con la Reggina era in scadenza. Il patron Foti, un presidente che la storia ci ha insegnato essere abbastanza “lunatico”, decise di prendere in mano la situazione e licenziare in tronco l’allenatore che si disse “Allibito da questa decisione”. La Reggina tentava da anni l’assalto alla A e proprio nel momento migliore della sua storia accadde un caso diventato po di livello “nazionale”. Per “traghettare” allora la squadra verso la fine della stagione, il patron Foti decise di richiamare Bolchi, già alla guida degli amaranto 9 anni prima.

E’ come se mi avessero chiamato solo per giocare la finale dei Mondiali” dirà Bolchi qualche settimana dopo, ma prima c’era da concludere una stagione che, a sei giornate dalla fine, vedeva la Reggina lassù a lottare per la Serie A.
Nonostante la situazione complicata, complicatasi a seguito della sconficca a Verona con il Chievo ed al difficilissimo calendario che, nelle ultime partite, vedeva gli scontri diretti con Atalanta, Pescara e Torino, la squadra di Bolchi riuscì inaspettatamente ad uscire indenne da tutte le sfide presentandosi a Torino con il sangue agli occhi contro una squadra di casa che, la settimana prima, si era guadagnata sul campo il secondo posto. Facile immaginare il risultato: 1-2 e festa grande per tutti: per il Torino che poteva festeggiare la Serie A davanti ai suoi tifosi, per la Reggina che poteva festeggiare la sua prima storica promozione in A e per Maciste che, a 60 anni, vinceva la sua ennesima “Finale dei Mondiali“.

“Io quella figurina non ce l’ho tuttora.” Disse poi Bolchi molti anni dopo, “Diciamo che forse non l’ho neppure mai cercata”.
Chissà se dopo quasi 60 anni qualcuno gliela avrà regalata quella figurina.
Di sicuro i tifosi baresi e reggini più romantici ne avranno una, custodita gelosamente. perché alla fine le figurine sono questo, piccoli pezzi di carta stampata dietro alle quali si nascondono ricordi, passione ed emozioni.

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